The Truman Show: il ver’uomo di Weir

NEL 1998 USCIVA “THE TRUMAN SHOW” CON JIM CARREY, RILEGGIAMO LA STORIA DEL FILM CULT DIRETTO DA PETER WEIR

Per permettere a tutto un mondo cinematografico di ricominciare alcuni produttori artistici di Los Angeles e professori alla Los Angeles Film School hanno pensato ad un progetto ancora ufficioso. Un Festival in cui verranno proiettati e discussi insieme, in modo interattivo, alcuni fra i film più clamorosi della storia del cinema contemporaneo. Un film, un tema, un paradosso, una domanda esistenziale. Si sa ancora poco del Festival in questione, l’unica cosa che si sa è che il progetto sarà creato dagli studenti e novità assoluta, dagli appassionati che propongano un film. Se la pellicola verrà scelta, allora saranno loro a presentarlo. Un modo di riportare il cinema al pubblico, perché senza le persone, senza la vita vera, non c’è cinema. Appartiene a tutti noi.

trumanUno dei primi ad essere stato scelto e sui cui si sta lavorando è The Truman Show, che vogliamo riproporre qui di seguito, per una breve spolverata rispetto all’attuale e delicatissimo tema dell’identità personale.

“Là fuori non troverai più verità di quanta non ne esista nel mondo che ho creato per te. Le stesse ipocrisie, gli stessi inganni… ma nel mio mondo tu non hai niente da temere”.

In The Truman Show (1998), diretto dal regista australiano Peter Weir e interpretato da Jim Carrey nel ruolo di Truman- True/Man, appunto, ad indicarlo come unica presenza autentica e reale dell’intero preparato in cui il nostro attore (protagonista del film nel film in un continuo distacco dalla realtà) ignora di essere al centro dello spettacolo live, uno spettacolo televisivo sulla sua vita, in diretta 24 ore su 24, seguito da circa 5000 telecamere, con accorto inserimento di prodotti commerciali ad allietare le già confuse menti di telespettatori-marionetta, soldatini addestrati a vivere un’esistenza che non appartiene loro. Vittime consapevoli di un tanto agognato quanto distorto desiderio di vivere la vita di qualcun altro.

Provate per un momento, mentre leggete queste parole, ad immaginare di svegliarvi domani mattina, scendere dal letto e prepararvi alla quotidianità come l’avete sempre conosciuta, con tutto quello che comporta: non togliete nulla, tenete la noia, la disillusione e i sogni infranti, trattenete i rimorsi e i rimpianti, poi respirate e sentite anche la sicurezza che questa vita vi regala ogni giorno. La casa, la famiglia, il lavoro, le stesse persone, alla stessa ora, nel susseguirsi della vita di ognuno di noi. Immaginate ora che nulla di quello di cui fate parte, nulla di quello che avete sempre conosciuto sia reale. Immaginatevi all’interno di uno studio televisivo, in cui la vostra vita è governata da telecamere e da appositi scrittori che decidono la musica, il sole, la luna, la pioggia, Dio stesso. Non esiste nulla. Che sensazione provereste a svegliarvi e rendervi conto che non siete mai esistiti così come vi siete sempre riconosciuti?

È il furto dell’identità, è come se qualcuno scippasse la vita che vi tenete stretta come una signora farebbe con la sua borsetta di Chanel in un ghetto malavitoso. Cosa c’è di più “maledetto” di questo? Di privarci di noi stessi e di scoprire di esserci dati in pasto al mondo per circa 30 anni, un mondo che per di più ci venera e che abbiamo a nostra insaputa strappato dalla realtà, con una realtà fittizia. Dico, è un trip mentale degno di gloria, no? La distopia individuale a cui assistiamo è in realtà il fallimento di un intero sistema. E’ il rifiuto della realtà così com’è, con tutto quello che non possiamo controllare, con tutte le variabili che sono al di fuori di ogni funzionamento logico o immaginale.

Scritta dal giovane Andrew Niccol (già autore di “Gattaca”, la porta dell’universo’) si tratta di una storia di grande spessore, di forte coinvolgimento, incisiva sul piano espressivo e delle immagini. Evidente l’intenzione di mettere in luce i confini ormai labilissimi tra realtà e fantasia nella civiltà del Duemila dominata dai media: l’argomento non è nuovo ma è svolto in modi così incalzanti e stringenti da portare in primo piano la riflessione (più ampia e senza confini storici) del rapporto tra l’individuo e la sua manipolazione, tra libertà e schiavitù, tra progresso e ritorno alla barbarie.

Ma soprattutto, l’insoddisfazione dai sinistri toni apocalittici che affligge ognuno di noi, incapaci di fare della nostra vita un capolavoro così com’è, con quello che abbiamo e per quello che siamo, unici nel nostro chaos esistenziale ed esperienziale. Un film inquietante, tra denuncia e speranza, che si ricollega a certi scenari apocalittici come ‘Metropolis’ di Fritz Lang, e che in maniera diretta e inequivocabile mette tutti di fronte alle proprie responsabilità: realizzatori ma anche esperti, critici e pubblico.

Un po’ come nel Mito della Caverna di Platone, quello che prevale, in un tanto sperato quanto meritato lieto fine, è la volontà di voler fuggire a questo controllo, acquisire la propria libertà, di voler essere Ulisse o meglio ancora Colombo (considerando che la barca con cui Truman abbandona la sua città si chiama Santa Maria). È la tenacia e la caparbietà dell’individuo che riesce a ribellarsi e liberarsi dalle catene della società andando verso un futuro ignoto, ma quantomeno reale. Truman abbandona il suo show governato, in cui è tutto deciso, è tutto manipolabile, tutto sotto forma di spot pubblicitario, per andare incontro alla vita vera, che per sua caratteristica intrinseca non è possibile gestire.