Berlinale 64 – No Man’s Land: recensione film (in Concorso)

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NING HAO DIRIGE NO MAN’S LAND, UN’OPERA ICONOGRAFICA SULLA BRUTALITÀ DELL’UOMO

Cosa differenzia l’uomo dall’animale? Forse l’istinto, più accentuato in uno più che nell’altro, oppure la ragione, emblema e simbolo della razza umana o, più semplicemente, la purezza e la nobiltà d’anima, sicuramente cristallina e buona negli animali mentre costantemente corrotta e malvagia nel cuore dell’uomo.  Per non parlare poi della grazia, della bellezza: marcita nei tratti antropologici, resi stanchi e brutti dal passare del tempo, da un mondo che non ha nulla di bello se non, per l’appunto, proprio quella natura minacciata biecamente dalla stupidità dell’Homo Sapiens.

Succede questo nel deserto sconfinato del Taklamakan, nella provincia dello Xinjiang: due falchi vengono catturati per ricavarne denaro, essendo una specie molto ricercata nella zona. Il destinatario degli splendidi uccelli è un ambiguo criminale avido e dalla sete di denaro. In questo deserto, casualmente, arriva Xiao Pan, un avvocato che viene dalla grande città e si ritrova, suo malgrado, nel posto sbagliato al momento sbagliato. Durante il lungo viaggio la sua storia si intreccia con quella dei falchi, scatenando così degli incontri strani e pericolosi in cui ha in mano il destino degli eventi.

No Man’s Land, diretto da Ning Hao, è un vero e proprio teorema su quella che è la società odierna, globalizzata e schiava del Dio denaro, resa polverosa, distrutta e imbruttita dove i valori si perdono, lenti, nelle folate di vento di un deserto rovente e spietato. In una cornice che rispecchia come non mai le emozioni e i tratti ruvidi dei protagonisti, il film, è uno spesso concentrato di filosofia alternata ad un action dal forte impatto visivo, arricchito da una fotografia e da una narrazione silenziosa che omaggia i western di John Ford e di Sergio Leone.

Il protagonista, un eroe capitato per caso, è il fiore che nasce nelle avversità, la variabile impazzita che nel microcosmo creato da Hao è, insieme alla bellezza dei falchi, l’unica fiamma di speranza che bonifica la durezza di uno scenario infinito e silenzioso in cui la cattiveria è la vera protagonista, dominante e prepotente, dilagante e indistruttibile. La pellicola si libera poi in un volo finale dove la speranza torna, in qualche modo, a librare alta, sottolineando con bellezza ed onestà qual è la differenza tra gli animali e l’uomo, impreziosendo il cinema con un esempio di spessore iconografico, spettacolare e potente.

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