Venezia 70: intervista ad Amos Gitai

È GIUSTO POTER PENSARE IN UNA CONVIVENZA PACIFICA IN MEDIO ORIENTE

In gara nella settantesima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è stato presentato il nuovo lavoro del regista israeliano Amos Gitai.

Il suo film ha come scopo quello, forse utopico, di far immaginare al pubblico una reale possibilità di pace in quella terra di promesse e di guerra che gli ha dato i Natali, attraverso le storie di una serie di persone che vivono nello stesso comprensorio e che sono intervistate da una giovane giornalista alla ricerca di notizie di una donna, la Ana Arabia del titolo, la quale anni prima per convinzione e amore, aveva abbracciato la religione musulmana lasciando quella ebraica.

Amos, quali sono le fonti e le suggestioni da cui e nata questa storia?

Ana Arabia è la storia di un gruppo di sette personaggi che vivono in una zona limitata, e rappresentano l’umanità e il modo in cui le persone possono coesistere in un fragile contesto utopico. Oggi giorno dal Medio Oriente giungono immagini violente, e con questo film abbiamo voluto gettare una bomba pacifica sull’odio religioso e sulla violenza. Qui le persone vivono insieme e cercano di superare le contraddizioni e i problemi del quotidiano. Per quanto riguarda i personaggi ci siamo ispirati a personaggi realmente esistenti, alcuni dei quali conosciuti durante la realizzazione dei documentari, ma non bisogna dimenticare che in questo caso si tratta di fiction, non di documentarismo.

Nel film ha una grande importanza la musica:  qual è il rapporto tra questa e i personaggi?

Come molti sanno, mi sono formato da architetto prima che da cineasta e credo che questo periodo storico soffra di un design eccessivo. Questo film vuole essere un tributo a chi non deturpa l’ambiente per viverci, ma si adatta, perché ama il territorio in cui vive. Allo stesso modo la musica tradizionale si fonde con quella di Gustav Maler, che è perfettamente in sintonia sull’ambiente circostante. La musica e il ritmo devono essere in sintonia con l’ambiente circostante e, a differenza del flusso frenetico di notizie veloci e superficiali che giungono ogni giorno dal mondo, il film vuole instaurare nuovamente il tempo, la comprensione e la sensibilità che meritano. Questo è il dovere della musica e del cinema.

Il film è stato realizzato in un unico piano sequenza, una tecnica che fino a pochi anni fa sarebbe stata impossibile l’ha scelta come metafora di un dialogo tra israeliani palestinesi che non dovrebbe fermarsi?

Realizzare questo film è stata una grande sfida per i tecnici e per gli attori. Quando si gira un film bisogna lavorare su due fronti: forma e significato. In alcuni casi ci si concentra sulla forma tralasciando il significato, in altri casi invece ci si identifica esclusivamente con il messaggio che trasmette. La sfida in questo caso è unire forma e significato. L’idea politica del dialogo e della congiunzione tra israeliani e palestinesi si riflette quindi nella scelta di non tagliare la pellicola, che rappresenta l’idea di non tagliare il rapporto tra queste due etnie.

Il luogo in cui vivono i personaggi è un luogo felice, anche se molto povero. La povertà favorisce il clima pacifico rendendo tutti uguali?

Non e una questione di povertà ma di semplicità. Nel paese in cui sono nato, in Israele, c’è un buon rapporto tra le gente. L’incontro tra israeliani e palestinesi si vive nel quotidiano e questo film mostra come le persone si muovono nel quotidiano, nel giro di un’ora e mezza e senza l’ausilio del montaggio. Il mio desiderio era creare un luogo pacifico, in cui spontaneamente si crea un clima di pace e solidarietà nel bel mezzo di un grande conflitto. Nel Medio Oriente si vogliono eliminare le diversità culturali e qui, al contrario, si mostra la possibilità di unione. Siamo la culla delle tre religioni monoteiste e abbiamo il dovere di ripristinare il dialogo.

Secondo lei vi è una possibilità di trovare la pace in quella culla?

C’è il rischio che il conflitto finisca in un massacro ma si deve anche simulare l’altra opzione per mantenere in vita un’idea utopica di riappacificazione. Le idee hanno un enorme potere, tutta l’umanità è sospinta dalle idee, dunque credo che sia giusto pensare a una convivenza pacifica per il futuro.

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